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il cielo sa quanto pesano le stelle

 

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Andare a dormire è una sconfitta, riconoscere che la giornata è finita e arrendersi, il sonno disperderà le illusioni che il risveglio non troverà più, i primi uccelli che cantano, la ventola del computer che fa discorsi insensati alle macchine parcheggiate di sotto, dobbiamo essere feroci se non vogliamo morire, ma ci sono ancora le veline che ballano con entusiasmo? Il sole appena alzato si è andato a mettere dietro le nuvole, quanto tempo ho per prepararmi a sparire, entrare nella moviola a occhi chiusi e guardarmi nascosto dietro un muro, perquisire quelle scene bagnate di pioggia violacea, scandagliare i paesaggi di un destino senza uscita, non posso rispondere di quello che faccio nei sogni degli altri. La mia sfortuna è che sono fortunato e continuo a leggere quel cartello, vietato sedersi sui gradini. Un’ora fa ad esempio sono stato a farmi un giro in montagna con renato rascel, non faceva nemmeno tanto freddo, guardavo il cielo, il cielo sa quanto pesano le stelle, e io devo fare la guardia al mondo, aspettare un fulmine che rischiari il paese per vedere che sta andando tutto bene, che è solo nostalgia del futuro quella che mi prende appena vedo un letto e una finestra rinfacciarsi l’aria fresca del mattino.

 


fare l’alba, disfare sogni

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C’è un aereo che parte tra poco. Non faccio mai quello che penso di fare per cui ho lasciato la luce accesa. Quando torno prenderò un appartamento, sì voglio sposarmi. Camminiamo? Così mi potrai chiedere se ti cercavo, e io, cosa hai fatto in questi giorni? e tu, ha piovuto continuamente. Questa è la chiave e quella è la fioraia, sono io, non ti ricordi di me, dei miei fiori, come potrei dimenticare anche ciò che non è mai esistito, dimenticare la mia inesistenza floreale, aspetta là dietro però, è una donna gelosa, anzi tieni vai a mangiare qualcosa, non posso lavorare se no. Non ti mando via, è una cosa urgente questo tramonto, sebbene sia solo uno dei tanti colori al mondo, ma qui sotto quest’ombra io ti posso giurare che non ti amavo e che poi mi è piaciuta la tua rabbia e il mio spavento quando facevi suonare il telefono, che se suonasse adesso sarebbe come soltanto una goccia di pioggia. Voglio essere sicuro che non vedrai nessuno, e io a pascolare maiali in un castello, in mezzo ai soldati, voglio vedere solo soldati. Il cancello dà sull’orto, lo attraversi e passi un canneto che ti porta fino ai campi, sul fondo vedrai la villa, c’è un pozzo nel giardino dove ti potrai nascondere in caso di pericolo, e lì depilarti come ha fatto quel pazzo l’anno scorso che ti ha violentata e poi ha firmato per essere il più bello il più intelligente, il migliore di tutti quelli ai quali hai gridato vattene sei un assassino. Questa notte staremo svegli, per farti soffrire quanto ho sofferto io, per rivestirti piano piano, le tue povere fiamme non possono niente e niente le spegnerà, è difficile sopraffare le guardie, difficile che io mi ammali all’idea di vedere il sangue.
Cos’altro, qualcosa che non va, se chiamate un dottore ditegli di aspettare, perché noi ci conosciamo e non ho idea di ciò che sia il freddo seduto ad aspettarlo, sono tre o quattro ore più comodo, dove c’era stato un cadavere adesso credo che avremo burrasca, quella di non sapere cosa succede, vuoi spegnere quel motore? orribile, scoppiettante come il diritto di salvarci e di chiedere aiuto. L’ho visto mentre l’uccideva e cercava di fargli capire che si può festeggiare perché siamo ricchi, e cosa cercare ancora finalmente, di incontrarlo un’altra volta che non lo conosco molto bene, oppure digli di darti un numero dove lo possa chiamare. Ma ti sei mai chiesto dove vanno, e il frammento di osso nei polmoni era la causa della morte. Ti avevo detto di chiamarmi, era urgente, finché il tramonto non era ancora tramontato, ti vorrei aiutare ma non so dove sia, tieni la bocca chiusa comunque, apri la porta e così come mi hai trovato stamattina, un corpo che squilla senza risposta, così voglio avere il tuo cuore qui nelle mie mani, perché mi piace, morire lentamente in un buco della roccia dove non possono trovarmi, domani mattina in stazione, alle otto. Posso spiegarti il malinteso, quella mossa di attraversare la strada, entrare nel parcheggio, accanto alla voce femminile di un uomo che può fare qualsiasi cosa quando è disperato.
Siamo già in ritardo. Non ho preso un soldo con me. Voglio provare a dirglielo subito di quell’incendio laggiù, ma dopo trenta chilometri chi mi inseguiva mi sfuggiva, la lettera l’avevi ricevuta e io ti avevo ritrovata, sfidata, e sentito dire non puoi entrare, da quando tua madre è morta hai sempre torto, che importanza ha la tua angoscia, c’e una vecchia che ti desidera nel salone grande, colpita in battaglia ti racconterà la mia colpa. Grazie di tutto, se sei d’accordo la tua grossa delusione sono io. Non parti con me, dunque questo è il rapporto, speriamo che soffi forte il vento, spostati, spostati ancora un po’, ripeti ancora un po’ che è inutile, dai un’occhiata, guarda la tua nave come batte il record di tutti gli azzurri immaginabili, bruciarla, con questo mare. Prendi quella sedia, volevo dirtelo da tanto tempo. Ho bisogno di aria, so che non dovrei uscire senza giacca, ma ricordo com’eri felice.
Vestita così hai un bel sorriso. Stai attenta a come rispondi, non ti aspettavo più, perché non mi hai detto che saresti venuta. Lei fa il bagno con la maglietta, che animali avrà? Un telefono, una finestra. Ho imparato a pensare come lei, questo è il suo problema. A volte devo svegliarmi per urlare il suo nome. So quanto devi aver passato, e spero non sia un altro falso allarme, o di più, pronto sì, un’ambulanza per favore. Per quanto tempo ancora quest’odore di ossido di carbonio s’infila nella macchina sbagliata. La merda dei traditori mi fa dimenticare dio, ti farò pedinare, vestito da spazzino ti dimenticherò, non meritavi di morire così. Da piccolo pensavo alle cose che facevo, adesso svengo, vedo l’alba dal patibolo, e ti aspetto fuori. Godrò di te, la luna se finisse la sua corsa in un lago, con quel sapore intenso del latte violento avresti solo un sospiro che io non saprei come usare, gli animali i fiori la musica, voglio essere essenziale, godermi dio poi buttarlo via, un camion che cade dal cielo.

 

(Ho ritrovato questo nel computer, data creazione documento 2006, ma io me lo ricordo ancora più lontano, l’ho letto, andava bene per questa foto che mi sono fatto invece pochi giorni fa, e andava bene perché non sapevo proprio cosa scrivere delle mie albe e di tutti i sogni che ci sono passati in mezzo, e andava bene perché sembra non sia cambiato niente da come sbirciavo l’alba allora e potrei averlo scritto stanotte, che non se ne sarebbe accorto nessuno, nemmeno io)


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Se metto un dito nell”orecchio sinistro mi fa male la pancia a destra. E’ difficile da credere ma va così, mi prude l’orecchio io mi gratto e arriva una fitta nella pancia. Se poi alzo la gamba sinistra la pancia non mi fa più male. Almeno finché in questa posizione non chiudo gli occhi e a quel punto non sento più niente. Sono stato dal dottore e gli ho spiegato e lui mi ha chiesto se mentre facevo tutto questo avessi per caso provato a trattenere il respiro. Ero perplesso così mi sono alzato e ho cominciato a grattarmi l’orecchio per riprodurre tutta la procedura e verificare l’effetto, ma il dottore ha toccato qualcosa sotto la scrivania e subito sono entrati due infermieri che mi hanno portato fuori senza tanti scrupoli. Io non capisco davvero come si fa a trattare così una persona che ha dei disturbi. Un po’ di umanità è quello che dico. Per di più io ti sto offrendo un’occasione per diventare famoso, tu studi il mio caso e diventi famoso. E se poi pensi di avere ragione tu perché hai studiato va bene ma allora non martellarmi con le dita sulle spalle che poi ti devo dire che mi fa male il ginocchio e tu non mi credi.
Comunque a parte questo il resegone è la montagna che sta qui davanti a me, col sole le montagne sembrano più vicine, che le puoi toccare, mentre quando il cielo è sporco e pieno di noie il resegone si abbassa, si allontana, un po’ come le cose che ci sembrano irraggiungibili, basta un po’ di sole, togliere del rumore alla vita e ritornano lì pronte davanti a splendere della loro assurda ovvietà, che mi fa pensare che tra cent’anni non mi ricorderò più di me, e così occorre che punti qualche sveglia da qualche parte, e che prenda nota dei luoghi su qualche muro.
Siamo al mondo per essere derubati, per la conquista di un capezzolo, quando farò un viaggio e l’aereo atterrerà nel mio giardino allora sarò arrivato, intanto sono un mediocre perché ho lasciato che riuscissero i mediocri mentre ci sono persone straordinarie nella loro normalità ma non perché fanno grandi cose ma perché non le fanno e vivono il loro anonimato con la decenza e l’eroismo di un sasso che ci vogliono le ere per spostarlo oppure la mano di un bambino. Ad esempio, quando io ti paradossalizzo mi sento bene, è che tu stai a casa di dio o forse a casa di dio ci sto io, di questi tempi è meglio sfruttare le discese, siamo tutti la merda di qualcuno e il sole è così freddo che ci sono più gradi all’ombra. Vorrei che tu mi portassi in un ristorante dove tutti mangiano in silenzio, solo le posate che si sentano e poi uscire fuori nella piazza immensa e bagnata dalla pioggia per starnutire contro ogni passante. Ci sono fiori che crescono dalle mie ascelle appassiscono e rifioriscono a scandire le voglie e le paure di ciò che non diventeremo mai perché i giorni non sono tutti uguali, lo vedo dalle lucciole che si spengono nella mia vasca, e il 13 aprile è uno dei giorni migliori per me perché il giorno prima è il mio compleanno e mi sento più libero il giorno dopo, e quest’ultimo 13 aprile io ho pensato che nella prossima vita mi prenderò tutto il tempo per ripensare a questa vita e vorrei anche imparare a fare l’amore con il cappello per vedere se riesco a non farlo cadere.
A volte rileggo le cose che scrivo e mi scompiscio dalle risate, ma si potrà farsi ridere da soli? e a volte poi mi commuovo e mi metterei dei commenti da solo se non fosse che faccio brutta figura, sì perché per me risponderei anche ai commenti che mi faccio da solo. Coi selfie però non ci so fare, è colpa delle cose che penso, che non vogliono farsi vedere e che hanno sempre un che di sbiadito e approssimativo, ideali per quando è il momento di aprire una finestra e benedire i gatti che guardano su, ma niente più. Che a me piace anche paradossalizzare le cose tanto che avevo programmato un post su facebook per stasera alle 20 perché avevo un appuntamento e sarei stato fuori per quell’ora, però tra una cosa e l’altra mi sono dimenticato cosa avevo scritto e più ci pensavo e più me lo scordavo e più avevo paura di aver scritto una stronzata, ho dovuto rimandare l’appuntamento e sono rimasto a casa perché così eventualmente se fosse stata davvero una stronzata l’avrei cancellata subito, e tu non devi pensare che non sei importante per me solo perché ci tengo al mio facebook, infatti io vorrei trasformarti in una statua per pisciarti addosso, e cosa mi dici adesso? Non ci vuole niente a dire che la verità è cugina gemella del delirio, ma mentre continuo a darmi consigli su come guardare lontano l’orizzonte si allontana, questo è, che se proprio ve lo devo dire io voterei per la neve, e lascerei che mi attraversi la testa col suo silenzio.
Sono nato che erano le quattro del pomeriggio e per questo non ingrano mai fino a quell’ora e così confondo alba e tramonto, secoli e istanti, e io con me, c’è un disegno perfetto nelle mancanze del mio corpo e te ne accorgerai quando farò l’amore con te con il cappello per farti vedere che riesco a non farlo cadere. E poi quando mi tolgo la parrucca per buttarmi giù dall’autobus e rotolare dentro la prima porta aperta fino in salotto dove c’è una scimmia che mi guarda con tristezza, allora mi ricordo di quando nell’altro mondo io riconoscevo il corpo dalle fantasie che aveva e spargeva su quel letto di foglie che era la tua vacuità. Ricordo che una volta ero in macchina e mi affianca uno con un cartello in mano e me lo mostra dal finestrino, la solitudine c’era scritto, e sembrava niente più che uno scorcio della prossima vita, un rumore di posate nel cielo limpido dove si staglia il resegone, portami via dottore adesso in quella vita e dimmi cosa c’è nell’orecchio che non si spegne più, e nella pancia che sembra piena di ore notturne fatte col pongo. Chissà come mi era venuto il sorriso.


penso che un giorno così

 

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Ieri mattina mi sono messo in testa di fare diventare rosso un semaforo con la forza del pensiero, mi sono concentrato e non ci crederete ma dopo nemmeno un minuto ci sono riuscito. Avendo preso fiducia in me stesso ho voluto allora provare anche col verde. La stessa cosa, il tempo di concentrarmi sì e no un minuto. Verde. Sull’onda dell’entusiasmo mi sono messo d’impegno per farlo diventare giallo ma mi è riuscito solo per pochi secondi, che comunque è sempre un risultato confortante visto che ero uscito di casa privo di forze e deciso a lasciarmi travolgere dal mondo. Per il resto non ricordo come è passata la giornata, solo a un certo punto svoltando dietro un muro un paio di seni enormi mi sono rimbalzati addosso violentemente e lei rideva e io che avrei voluto dire scusa ho detto è stato un piacere e lei rideva ancora di più e sapevo che rideva della mia aria esterrefatta ma le chiesi perché rideva e si allontanò, così credo di aver passato tutto il giorno a cercare angoli da svoltare con gli occhi socchiusi sperando di atterrare ancora sul morbido.
Stanotte mi sono messo a letto e ho spento la luce quando dopo qualche minuto, mentre mi giravo dall’altra parte apro gli occhi e nel buio totale intravedo una piccola lucina blu. In quell’astronave che è la mia stanza ci può anche stare una lucina blu, eppure mi sembrava di aver spento ogni cosa, comprese le suggestioni i rimorsi le illusioni. Guardo meglio, e la luce si muove, come fosse una lucciola. Ma blu. Resto per un po’ intontito poi mi rendo conto della situazione e mi inquieto. Accendo la luce, mi guardo intorno non c’è niente, ci penso su, questa è l’insonnia mi dico, poi rispengo la luce e mi rigiro da quest’altra parte. Do un’occhiata al buio e chiudo gli occhi per finta. Li riapro, e la lucina blu è ancora lì che continua a muoversi con un gesto quasi suadente ma ormai per me allarmante. Accendo la luce, esco dal letto, devo risolvere la faccenda, e non devo avere paura, sono grande. Ma la lucciola non c’è più. Guardo sul pavimento, tra i libri, sposto la tenda, niente. Penso agli extraterrestri, penso che sono pazzo, apro la finestra non so se per fare uscire qualcosa o fare entrare altro buio, o forse per vedere se ci sono le stelle, e se ci sono tutte, penso che nella mia vita ci deve essere qualcosa che non va ma quel lampione illumina solo un angolo di strada dove tutto sembra funzionare. Allora mi viene un’idea, mi rimetto a letto, guardo la stanza per l’ultima volta poi spengo la luce. E rivedo la lucciola blu, e la sto a guardare, e la vedo muoversi sinuosamente nel nero fitto della stanza che non c’è più. Non voglio leggere quello che scrive nel suo volo. Non voglio sapere niente di lei, perché so già tutto. E non voglio dormire. Solo ricordare quando ti ho detto hai un bel sorriso che mi fa venire voglia, e tu, voglia di cosa? di qualsiasi cosa, e allora hai spento piano il sorriso e mi hai guardato spaventata e incantata come se ti avessi detto qualsiasi cosa.


lettera d’amore a una formica

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Proprio io che ammazzo le parole pur di non pronunciarle faccio finta che tu sei questa formica per avere un corpo con cui parlare, per vedere come ti muovi nel mondo, non l’ho mai fatto perché gli applausi paralizzano uno della mia specie anche solo sentirli salire dal canyon, quelli come me non sanno nemmeno la paura di non averti mai incontrata, c’è sempre un treno in corsa su cui saltare e un identikit in tasca, quelli come me fanno ginnastica in ripostiglio, e allora ti dirò solo le cose superflue, per l’essenziale c’è tempo quando saremo bambini con la tromba, che una lettera d’amore non è niente se la paragoni a quando tutto sarà finito.
Dal mio cannocchiale, devo dirti, ti ho vista seduta nella stanza e sembravi così vergine nella tua affamata distesa di solitudine che mi è venuta voglia di pensare che arrivavo io e abbiamo cominciato a dipingere le pareti lasciando già il segno che i quadri lasceranno quando saranno tolti, ecco in quei pezzi di muro preservati dalla polvere mi è parso di vederci dei film con tanta gente che scappava e si baciava e poi tornava e salutava per sempre e si toccava le gambe e correva e ho pensato che fra due persone è questione di longitudine e di prendere una posizione dentro una storia, di stare sullo stesso scaffale insomma, non tanto di avere l’ispirazione di una qualche follia se no è solo un dito che scrive sull’acqua, e allora mi sono messo lì a sognarti perché so che poi tu ti svegli felice.
Certe volte avrei voglia di fare qualcosa di mangiare di provare andare di fare guardare di godere di parlare sapere e mangiare bistecche di topi da laboratorio, ho voglia di essere gentile, sì gentile con tutta la tua pelle e le tue budella, raccogliere anche i tuoi baci scaduti che non voglio buttare niente di te, essere un uomo essere una donna essere ciò che vuoi su un prato di margherite, mi chiedo come ti faresti riconoscere un’altra prima volta, e intanto ho messo a bollire le scarpe per avere l’idea del viaggio che non farò, vuoi che facciamo l’amore ok io mi dissocio, ma facciamolo, e se sei al mattino su un isola e la sera sull’altra io sarò al mattino sull’una e la sera sull’altra, è che io le idee ce le avrei ma le hanno già trovate tutte gli altri non si inventa più niente ogni paesaggio ha già visto i tuoi occhi e dove non c’erano io andavo a leggere un verso nella stalla, non voglio avere colpa per tutti i secoli e gli amanti passati prima di me nel tuo bucato al sole, se sei mora amoreggerò se sei bionda abbionderò se sei pazza impazzirò se mi guarderai con lo sguardo di un cavallo ti cavalcherò se mi farai tuo maniaco ti violenterò.
Che ne hai fatto di tutte le radiografie della mia mano, quelle che ti ho mandato per farti capire chi ero, cosa volevo in cambio della tua lontananza, quale vita mi sarebbe servita da raccontarti, e allora senti questa quando il treno ha frenato scricchiolando in mezzo alla campagna c’eravamo noi sulle rotaie col nostro spargimento di sangue e le nostre cianfrusaglie e il nostro guardarci da due centimetri per vederci avere un corpo solo, perché le indicazioni erano di inventarsi un mondo e starci dentro anche finto basta starci dentro, sarebbe la differenza che fa tra la ferita e il miracolo, in fondo niente di diverso da un colpo di vento a sollevare le cartacce, e dimmi perché mi hai sorriso quando ti ho sputato in faccia dimmelo ho diritto a una risposta non startene lì vestita da biancaneve a guardare le scie degli aerei dobbiamo fare qualcosa per scambiarci i nostri ricordi inventati, scoprire che non sono gli stessi e legarceli intorno al collo, mentre tutto intorno era cosparso di cartacce.
Ci sono solo lenzuola nel mio letto e non ci mettono niente a diventare fantasmi, vorrei tornare ma non riesco a convincere le scarpe, quando ho fame dormo e quando ho sonno bevo, e quando ho paura copincollo i tuoi pensieri dentro i miei, ti porto a fare un giro in macchina mi piace guidare evitando i tombini, il mio sperma che cola dai tuoi occhi sarà solo l’inizio.
Tutto questo farei se solo tu fossi un essere che vive dei tuoi sospiri, se solo avessi un nome che assomiglia alla mia disperazione, prima di lasciarti sparire sotto un sasso non penso a ciò che dico perché non esisti, se tu fossi una formica almeno potrei schiacciarti con un dito mentre ti dico ti amo ma solo per giocare, le lettere d’amore si scrivono piangendo e tu non piangi abbastanza per i miei gusti. Ma non stare in pena per me che un albero sotto il quale far finta di non pensarti lo trovo sempre.  Se poi è l’inconcepibile che vuoi fai una cosa, apri la bocca, rimandami indietro questa lettera senza aggiungere una parola, cerca una fetta di mare da qualche parte per vedere il treno tuffarsi, e aspettami, ti prometto un giaciglio di noia e peccato, ti prometto una sparizione al momento giusto, guarda, uno stormo di uccelli disegna il tuo naso e il mio abbandono nel cielo che si addormenta, aspettami, resta sveglia almeno tu.


come dio salva gli uccelli dalle palline da golf

Sto qui seduto su questa mattina a guardare alla finestra i fumi dei camini che si disperdono più bianchi del grigio di cui è dipinto il mio sogno, che si è svegliato ancora una volta quando una nave mi stava portando chissà dove. Cerco di ricordare dov’ero seicento milioni di anni fa, ma mi vengono in mente solo galline e tanto vento. Ascolto il frastuono della flora batterica che si sta riorganizzando, anzi ne vedo il film della battaglia come se fosse appena oltre il vetro umido e compiango i vinti e penso che un po’ di tempo fa mi ero messo in testa di andare in giro a fare alla gente una domanda, chi è dio? Non è argomento molto trendy, però del resto anche dedicarsi all’amore o alla politica che so, queste sì che sono due palle davvero, e come i pesci che possono fare un salto fuori dall’acqua a me spiace di non potere ogni tanto saltare fuori dal cielo, e comunque da oggi cambio totalmente la mia vita, uscirò sempre di casa pensando al piede destro e rientrerò pensando al sinistro, prima lascio che passi un po’ quest’idea dell’anno nuovo però, poi devo sintonizzarmi con il sole e con la luna, che è ora. Intanto insisto a restarmene seduto a sentire che non c’entro niente con le mie parole che non assomigliano ai miei pensieri, a vedere il cielo mangiarsi le gru e la luce del pomeriggio scurire. Sembra che la natura stia prendendo colori digitali, adesso che la pellicola è finita, e quindi anche dio se non ha più la stessa resa pittorica come se la cava con le preghiere, come si nasconde, come salva gli uccelli dalle palline da golf, che gli uccelli, piove non piove volano e se avessi una mazza almeno proverei a colpirli.
Duecento metri quadrati di parete intestinale sono tanti da tappezzare di suggestioni e fascinose teorie eubiotiche tra me il giorno che passa e un sentimento perduto nel campo, ciononostante le macchine continuano a sfrecciare tra gli alberi e l’autostrada a scagliarsi verso un tramonto che solo un cieco può vedere senza dirti com’era, e se mi fossi alzato una figura nera si sarebbe stampata nel controluce della mia allucinazione. Mi sono addormentato invece e quando mi sono svegliato la finestra era piena di rettangolini illuminati che erano poi le finestre delle altre case e mi chiedevo in quale rettangolino poteva esserci uno come me seduto a pensare a cosa fare del mondo a come essere un re cattivo, ma non volevo immaginare quali storie facevano risplendere i lampadari perché sentivo la stanchezza degli intrighi tutti diversi e sorprendenti nella loro normalità, che non avevano bisogno di un finale erano storie e basta, non avevano bisogno di aggettivi o truccatori o scenografi. Non avevano bisogno di un ufo al quale un grigio scuro assorbiva i contorni, e nemmeno io avevo bisogno di parole di un altro pianeta, le strade erano bagnate e mancava poco alla notte, solo il tempo di pensare ancora se quattro miliardi di batteri erano sufficienti e se dio avesse un dio, o che ci fosse un dio del dio di dio, e l’avventura di ogni soldato e di ogni solitudine un giorno qualcuno dovrà darcele tutte queste storie, e poi andare a dormire con due domande sotto le palpebre, in quale buio si insinuerà la nave per portarmi nel suo chissadove, e quale pioggia continua a far baccano là fuori, in quella finestra che non sa più con quale sguardo dirmi la verità.


i sorrisi che un gatto non può fare

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Avevo pronto un post bello cattivo, natalizio come dire, ma questi sono stati giorni tristi e non ne avevo più voglia. E’ successo che ho scavato nella terra fangosa di un bosco per seppellire un gatto che avevo visto morire. E che per 18 anni avevo visto vivere. Però anche le parole sono rimaste sotto le foglie e io non riesco a tirarne fuori una che non sia più penosa dello sgocciolare della nebbia sui rami e voglio tenermi per me l’ultimo bacio freddo e gli occhi bagnati di mia sorella e i sorrisi che un gatto non può fare e i suoi sogni che non finiscono mai, e voglio immaginare che il suo sogno di adesso è lo stesso che ho fatto io stanotte. E poi per sfuggire al vuoto voglio raccontare un’altra cosa che non è un’altra cosa ma si può far finta che lo sia e pensare che io sia un inventore di stranezze, che faccio buche per riempirle di turbamenti. E invece c’era questa pallina dell’albero di natale che si muoveva, oscillava, leggermente ma in modo evidente, e non c’era verso di fermarla che subito riprendeva a muoversi, ed era l’unica in tutto l’albero. Era una cosa solo curiosa fino a quel punto, di quelle stramberie tipiche di internet che poi ormai non ci crede più nessuno, e però dal momento che come espediente narrativo non sarebbe una gran trovata preferirei mi credeste, già che io l’ho vista coi miei occhi la pallina dondolare per giorni e giorni, e senza sapere che questo ancora non era niente. Perché poi è successo che dall’altro giorno, da quando la Peggy è morta, la pallina si è fermata. Lo giuro. Continuo a guardarla ancora per vedere se si muove. Non si muove più. E resta lì come un sorriso spento. E’ che a me queste cose mi fanno avere fiducia nel futuro. Cioè che un sorriso ci sia da qualche parte, e non mi interessa dove.

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1. prima o poi troverò un titolo per questa storia (incipit autunnale)

 

Era una giornata triste, sia che la si guardasse dalla finestra, sia fissando il muro con i suoi quadri dentro i quali non riuscivo più a perdermi da tempo, c’era un sole che riscaldava la trasparenza delle nuvole ma non i miei pensieri. Suonò il telefono e pur non avendo motivo per rispondere nè sperare in niente risposi pronto. C’era un uomo dall’altra parte che disse sono John Myers o qualcosa del genere, e aveva un forte accento straniero e se avesse detto Oliver Hardy ci avrei creduto di più. Disse, buonasera chiamo da Lugano, ed era per conto di una certa ditta che non ricordo. Noi sappiamo che voi uomini italiani siete molto interessati al vostro aspetto e avete grande cura del vostro corpo, incalzò. Può darsi, ma non io, risposi. Buonasera. Lui cercò disperatamente di restarmi aggrappato in qualche modo parlando velocemente di creme e cose innovative, e io gli spiegai che ero solito lavarmi la faccia al mattino e i denti la sera, il pettine mi era sconosciuto e mi facevo il bagno una volta al mese giusto per far scorrere l’acqua. Ed era quasi la verità. Quando riattaccai il mio umore era migliorato. Non so che tempo facesse a Lugano, qui le foglie volavano da una nostalgia all’altra, e dal cornicione di fronte le osservavano i piccioni.

(1 continua)


questa è la mia vita

Quando mi stanco di immaginare immagini mi immagino di guardarle.

Tu hai i pedali della mia bici, vediamoci laggiù dove c’è un obitorio per i sogni che nessuno riconosce, e ridammeli che settembre non è sexy come luglio e quindi addio, ci sarà ancora un’estate per vedere annegare paesaggi e origliare il battito delle donne di picche, e un temporale per il nostro prato ricoperto di macerie che si seppelliscono da sole. Tiriamo a sorte le stagioni e prendiamone una che ci ricordi tutte le volte che ci siamo dimenticati di essere avanzi di un crepacuore senza ritorno, ruote che il vento continua a far girare anche dopo l’incidente.

(Questa è la mia traduzione, penso di essermela cavata nonostante non abbia trovato nemmeno un dog o un table che mi venisse incontro. E comunque per quelli precisi il testo sarebbe questo.  Ah nel video io sono quello con gli occhi più piccoli)

Broken bicycles,
Old busted chains,
With busted handle bars
Out in the rain.
Somebody must
Have an orphanage for
All these things that nobody
Wants any more
September’s reminding July
It’s time to be saying good-bye.

Summer is gone,
Our love will remain.
Like old broken bicycles
Out in the rain.

Broken Bicycles,
Don’t tell my folks;
There’s all those playing cards
Pinned to the spokes,
Laid down like skeletons
out on the lawn.
The wheels won t turn
When the other has gone.
The seasons can turn on a dime,
Somehow I forget every time;
For all the things that you’ve given me
Will always stay
Broken, but I’ll never throw them away


sonata per milza e cartilagine

Qualche giorno appena, questo restava da scoprire del loro amore, di quale finale si sarebbe rivestita la storia che era cominciata una sera davanti a un violoncello dagli occhi scuri e mansueti, e quelle dita leggere che poi avrebbero rovistato anche il suo corpo per farlo diventare un’anima turbolenta. E dopo quel concerto lei aveva attraversato con lui l’oceano senza sapere che sarebbero bastati cinquant’anni soltanto per trovarsi in quel letto d’ospedale aspettando che si svelasse la scena dell’addio. Avevano avuto la vita per dirsi qualsiasi cosa, e adesso c’erano solo le parole mute della morte, quelle che non si erano detti né immaginati mai. Lei si lasciava guardare per ore seduta nel controluce della finestra, lasciava che lui la trasfigurasse in un film bianco e nero che il silenzio velava di azzurra nostalgia. Poi quando lo vedeva addormentato si avvicinava al letto perché toccava a lei a quel punto spiargli i sogni, andare via lontano da lì e correre a cercarlo in qualche angolo di ciò che era stato.
Nora non capiva come fosse possibile amarlo più di quando l’aveva conosciuto, che quella volta le era sembrato non ci potesse essere più posto nel suo involucro corporeo, eppure quell’amore di adesso era incredibilmente più grande e ciò la rendeva sicura ormai che dovesse esserci necessariamente una qualche altra dimensione, che era poi una semplice questione di spazio, come poteva il suo corpo bastare per quel sentimento, il contenitore di ciò che lui era e rappresentava per lei non poteva ridursi a quel piccolo agglomerato carnale, e questo dava adito alla sua speranza e le placava l’angoscia. Che in pratica lui così tra qualche giorno non sarebbe morto, avrebbe solo convinto i dottori che quella poteva chiamarsi morte, ma chissà cosa stava già escogitando in quella testa d’artista abituata a non arrendersi.
Sono strani gli americani, tu vai lì a suonare e loro ti seguono per tutta la vita. L’aveva detto anche agli infermieri, come a chiunque quando voleva riconoscere ancora una volta quel sorriso che sembrava essere rimasto in mezzo all’oceano, e lei si lasciava vezzeggiare, lasciava che il suo archetto la sfiorasse facendola risuonare. A volte la prendeva e la spogliava, poi appoggiava l’orecchio come fa un dottore e l’ascoltava, e sembrava davvero godere, un po’ sulla pancia un po’ sulle gambe, come la puntina di un giradischi si estasiava per quei suoni che sentiva solo lui, perché poi ogni volta che anche lei aveva provato, benché l’adorasse, non aveva mai sentito niente.
Lui le aveva insegnato che la musica non era solo nel suo violoncello, ma era ovunque, nei fiumi che scorrevano e nell’erba che cresceva, nell’alba e negli occhi che piangevano, nei ricordi e nella lontananza. E lei col tempo aveva scoperto che era vero.
Adesso anche quel dolore, quel suo spegnersi, quei suoi sguardi liquidi potevano essere ascoltati quasi come provenire da un’altra stanza, da un corridoio dove qualcuno si estenuava per ricostruire l’eco dei sussurri passati, ed era una sonata che profumava di lacrime dolcissime.
Poco prima che la vita se ne andasse, lui fece uscire tutti dalla stanza perché voleva parlare con lei. E una volta che furono soli non disse le solite cose che si dicono quando si muore, e nemmeno lei veramente se le aspettava, ma le fece cenno di aprire il comodino. C’era un biglietto da visita, lei lesse l’indirizzo di un’impresa di pompe funebri. Si trattava di una ditta americana specializzata in cremazioni, e se lui voleva così, certo lei non aveva niente da obbiettare. Soltanto non capiva quel fare di lui ammiccante, che se solo il dolore l’avesse consentito, si sarebbe potuto dire sorridente.
Quando Giacomo morì, o meglio ingannò i dottori, lei non ci fece nemmeno caso, prese il biglietto e se ne andò come per fare una commissione, ubbidiente al suo amore. Lungo la strada pianse, un po’ perché vedeva quelle nuvole nere e gonfie che si avvicinavano sopra i palazzi, e un po’ pensando che tutto era finito, ma lo fece senza dispiacere, e se non fosse stato per le vetrine e i passanti che si inumidivano e scoloravano delicatamente non se ne sarebbe neppure accorta. Le ultime parole del suo amore le avevano detto di starsene calma e tranquilla, di non pensare a niente di brutto, e lei l’aveva sempre ascoltato il suo amore, come poteva non farlo adesso. Quando fu negli uffici dell’agenzia si strofinò gli occhi e si sistemò per il colloquio con quel signore molto gentile e professionale che l’aveva fatta accomodare sul divanetto per spiegarle quali fossero nel dettaglio le disposizioni che il suo amore aveva stabilito. Non fu molto sorpresa da ciò che apprese sarebbero dovute essere le procedure. Lui l’aveva abituata alle sorprese, e non l’aveva mai delusa, così dopo che le ebbero spiegato come le volontà del defunto si sarebbero esplicate, quando uscì dall’ufficio le sembrava di avere un sorriso che si allargava spudoratamente tra le rughe, che pure erano delicate, ma che non sarebbero mai più state guarite dalle carezze del sue amore.
La condussero fuori nel giardino, dove ritrovò gli amici che avevano accompagnato Giacomo per i saluti. Introdussero la bara nel villino dentro il quale l’avrebbero bruciata, ma lei preferì stare fuori a farsi consolare dalle foglie autunnali che animavano la cerimonia. Il suono del violoncello che veniva diffuso nel cortile non riuscì a strapparle nemmeno un singhiozzo, anzi lei si abbandonò alla grazia melodiosa del suo amore con l’incanto della prima volta. Poi all’improvviso un fumo grigio si alzò dal retro per perdersi nel cielo, e allora sì, due lacrime le piovvero sulle scarpe. Stette a guardare con la gola chiusa quella nuvola che era stata la sua vita, amandola e sorridendole poi nel suo dileguarsi, perché adesso le sembrava di capire quale fosse la vera dimensione di quel sentimento, e che il recipiente non poteva essere il suo corpo e nemmeno il mondo intero ma andava ben oltre il confine dell’universo. E quando il tetto smise di fumare se ne andò a casa quasi felice.
Il mattino dopo Nora si presentò come d’accordo per riportare a casa il suo amore, portando con sé la stessa trepidazione di quando l’aveva aspettato dopo il concerto, cinquant’anni fa. C’erano altre due donne nella sala d’attesa che avevano già fatto conoscenza, ma lei non volle interloquire. Una mia amica, dissero, si è fatta un giorno di cammino per disperdere suo marito in cima a una montagna. Oh sì, disse l’altra, c’è chi lo fa col mare, io me lo terrò sul letto, non voglio dormire da sola. Noi invece abbiamo un albero dove lui andava spesso per leggere, e lo seppellirò lì. E lei, cosa farà? chiesero improvvisamente a Nora. Lei fu colta di sorpresa, ma dopo una breve esitazione disse, in un disco, mescolerò le sue ceneri nel vinile e ne farò un disco. Noi americani siamo strani, anche se veramente è stata un’idea sua. Le donne non capirono se fosse irriverenza o follia, però dopo qualche minuto la videro uscire dall’ufficio con il suo bel disco in mano, commossa e raccolta nel suo turbamento.
Nora passò tutto il giorno a fare cose normali, fingendo di essere distratta e lasciando che il desiderio crescesse per conto suo, poi quando tutto il rumore della giornata si dissolse nella stanchezza della sera, prese il suo amore e lo mise sul giradischi. Si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. Non c’era più il violoncello, non più la burrasca dell’oceano. C’era il suono ruvido delle ossa e della carne, il crepitare del cuore e dei polmoni, lo stridio della pelle e il mormorio del sangue, e adesso anche lei poteva sentire quello che la sua verginità non era mai riuscita a sentire, cigolare la lingua, e le cartilagini e i capelli, sussurrare la milza fino all’orgasmo di ogni pensiero che riguardava il suo amore, che era lì e la stava baciando, le stava dicendo siete strani voi americani. Quel frusciare sublime di ciò che era la natura e la sostanza della sua passione era l’ultimo e definitivo concerto della loro storia. Quando il disco finì si addormentò pensando che avrebbe passato il resto dei suoi giorni a far finta di niente, solo aspettando la sera. Sapeva che avrebbe sempre potuto fare l’amore con lui, senza che dovesse esserci mai la parola fine.