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giugno sexy

 

_ANDER~3

 

La pioggia mi sorprende mentre immagino il tuo viso che si riempie di nuvole e morbillo, ho l’ombrello piantato nel petto e tu a spruzzare latte per le strade mi guardi come un cane che ha le piaghe e allora girami dammi un altro sfondo per morire, devo trovare un paracarro per legarci le mie idee devo sapere quello che stanotte ha sognato il mio computer, mangio la verdura sputo la verdura e mi rigiro nella tomba sgonfio di poesia, la notte scendo prendo nota delle targhe e spero di inciampare sulla tua scatola nera che appena la trovo la sotterro perché cresca l’amore, ma intanto ti dico e te lo dico con un dito che questo è un invito ufficiale a non amarmi mai, solo vieni a raccogliere le alghe che mi galleggiano dentro.

calendario sexy


lettera d’amore a una formica

mare 2

 

Proprio io che ammazzo le parole pur di non pronunciarle faccio finta che tu sei questa formica per avere un corpo con cui parlare, per vedere come ti muovi nel mondo, non l’ho mai fatto perché gli applausi paralizzano uno della mia specie anche solo sentirli salire dal canyon, quelli come me non sanno nemmeno la paura di non averti mai incontrata, c’è sempre un treno in corsa su cui saltare e un identikit in tasca, quelli come me fanno ginnastica in ripostiglio, e allora ti dirò solo le cose superflue, per l’essenziale c’è tempo quando saremo bambini con la tromba, che una lettera d’amore non è niente se la paragoni a quando tutto sarà finito.
Dal mio cannocchiale, devo dirti, ti ho vista seduta nella stanza e sembravi così vergine nella tua affamata distesa di solitudine che mi è venuta voglia di pensare che arrivavo io e abbiamo cominciato a dipingere le pareti lasciando già il segno che i quadri lasceranno quando saranno tolti, ecco in quei pezzi di muro preservati dalla polvere mi è parso di vederci dei film con tanta gente che scappava e si baciava e poi tornava e salutava per sempre e si toccava le gambe e correva e ho pensato che fra due persone è questione di longitudine e di prendere una posizione dentro una storia, di stare sullo stesso scaffale insomma, non tanto di avere l’ispirazione di una qualche follia se no è solo un dito che scrive sull’acqua, e allora mi sono messo lì a sognarti perché so che poi tu ti svegli felice.
Certe volte avrei voglia di fare qualcosa di mangiare di provare andare di fare guardare di godere di parlare sapere e mangiare bistecche di topi da laboratorio, ho voglia di essere gentile, sì gentile con tutta la tua pelle e le tue budella, raccogliere anche i tuoi baci scaduti che non voglio buttare niente di te, essere un uomo essere una donna essere ciò che vuoi su un prato di margherite, mi chiedo come ti faresti riconoscere un’altra prima volta, e intanto ho messo a bollire le scarpe per avere l’idea del viaggio che non farò, vuoi che facciamo l’amore ok io mi dissocio, ma facciamolo, e se sei al mattino su un isola e la sera sull’altra io sarò al mattino sull’una e la sera sull’altra, è che io le idee ce le avrei ma le hanno già trovate tutte gli altri non si inventa più niente ogni paesaggio ha già visto i tuoi occhi e dove non c’erano io andavo a leggere un verso nella stalla, non voglio avere colpa per tutti i secoli e gli amanti passati prima di me nel tuo bucato al sole, se sei mora amoreggerò se sei bionda abbionderò se sei pazza impazzirò se mi guarderai con lo sguardo di un cavallo ti cavalcherò se mi farai tuo maniaco ti violenterò.
Che ne hai fatto di tutte le radiografie della mia mano, quelle che ti ho mandato per farti capire chi ero, cosa volevo in cambio della tua lontananza, quale vita mi sarebbe servita da raccontarti, e allora senti questa quando il treno ha frenato scricchiolando in mezzo alla campagna c’eravamo noi sulle rotaie col nostro spargimento di sangue e le nostre cianfrusaglie e il nostro guardarci da due centimetri per vederci avere un corpo solo, perché le indicazioni erano di inventarsi un mondo e starci dentro anche finto basta starci dentro, sarebbe la differenza che fa tra la ferita e il miracolo, in fondo niente di diverso da un colpo di vento a sollevare le cartacce, e dimmi perché mi hai sorriso quando ti ho sputato in faccia dimmelo ho diritto a una risposta non startene lì vestita da biancaneve a guardare le scie degli aerei dobbiamo fare qualcosa per scambiarci i nostri ricordi inventati, scoprire che non sono gli stessi e legarceli intorno al collo, mentre tutto intorno era cosparso di cartacce.
Ci sono solo lenzuola nel mio letto e non ci mettono niente a diventare fantasmi, vorrei tornare ma non riesco a convincere le scarpe, quando ho fame dormo e quando ho sonno bevo, e quando ho paura copincollo i tuoi pensieri dentro i miei, ti porto a fare un giro in macchina mi piace guidare evitando i tombini, il mio sperma che cola dai tuoi occhi sarà solo l’inizio.
Tutto questo farei se solo tu fossi un essere che vive dei tuoi sospiri, se solo avessi un nome che assomiglia alla mia disperazione, prima di lasciarti sparire sotto un sasso non penso a ciò che dico perché non esisti, se tu fossi una formica almeno potrei schiacciarti con un dito mentre ti dico ti amo ma solo per giocare, le lettere d’amore si scrivono piangendo e tu non piangi abbastanza per i miei gusti. Ma non stare in pena per me che un albero sotto il quale far finta di non pensarti lo trovo sempre.  Se poi è l’inconcepibile che vuoi fai una cosa, apri la bocca, rimandami indietro questa lettera senza aggiungere una parola, cerca una fetta di mare da qualche parte per vedere il treno tuffarsi, e aspettami, ti prometto un giaciglio di noia e peccato, ti prometto una sparizione al momento giusto, guarda, uno stormo di uccelli disegna il tuo naso e il mio abbandono nel cielo che si addormenta, aspettami, resta sveglia almeno tu.


sonata per milza e cartilagine

Qualche giorno appena, questo restava da scoprire del loro amore, di quale finale si sarebbe rivestita la storia che era cominciata una sera davanti a un violoncello dagli occhi scuri e mansueti, e quelle dita leggere che poi avrebbero rovistato anche il suo corpo per farlo diventare un’anima turbolenta. E dopo quel concerto lei aveva attraversato con lui l’oceano senza sapere che sarebbero bastati cinquant’anni soltanto per trovarsi in quel letto d’ospedale aspettando che si svelasse la scena dell’addio. Avevano avuto la vita per dirsi qualsiasi cosa, e adesso c’erano solo le parole mute della morte, quelle che non si erano detti né immaginati mai. Lei si lasciava guardare per ore seduta nel controluce della finestra, lasciava che lui la trasfigurasse in un film bianco e nero che il silenzio velava di azzurra nostalgia. Poi quando lo vedeva addormentato si avvicinava al letto perché toccava a lei a quel punto spiargli i sogni, andare via lontano da lì e correre a cercarlo in qualche angolo di ciò che era stato.
Nora non capiva come fosse possibile amarlo più di quando l’aveva conosciuto, che quella volta le era sembrato non ci potesse essere più posto nel suo involucro corporeo, eppure quell’amore di adesso era incredibilmente più grande e ciò la rendeva sicura ormai che dovesse esserci necessariamente una qualche altra dimensione, che era poi una semplice questione di spazio, come poteva il suo corpo bastare per quel sentimento, il contenitore di ciò che lui era e rappresentava per lei non poteva ridursi a quel piccolo agglomerato carnale, e questo dava adito alla sua speranza e le placava l’angoscia. Che in pratica lui così tra qualche giorno non sarebbe morto, avrebbe solo convinto i dottori che quella poteva chiamarsi morte, ma chissà cosa stava già escogitando in quella testa d’artista abituata a non arrendersi.
Sono strani gli americani, tu vai lì a suonare e loro ti seguono per tutta la vita. L’aveva detto anche agli infermieri, come a chiunque quando voleva riconoscere ancora una volta quel sorriso che sembrava essere rimasto in mezzo all’oceano, e lei si lasciava vezzeggiare, lasciava che il suo archetto la sfiorasse facendola risuonare. A volte la prendeva e la spogliava, poi appoggiava l’orecchio come fa un dottore e l’ascoltava, e sembrava davvero godere, un po’ sulla pancia un po’ sulle gambe, come la puntina di un giradischi si estasiava per quei suoni che sentiva solo lui, perché poi ogni volta che anche lei aveva provato, benché l’adorasse, non aveva mai sentito niente.
Lui le aveva insegnato che la musica non era solo nel suo violoncello, ma era ovunque, nei fiumi che scorrevano e nell’erba che cresceva, nell’alba e negli occhi che piangevano, nei ricordi e nella lontananza. E lei col tempo aveva scoperto che era vero.
Adesso anche quel dolore, quel suo spegnersi, quei suoi sguardi liquidi potevano essere ascoltati quasi come provenire da un’altra stanza, da un corridoio dove qualcuno si estenuava per ricostruire l’eco dei sussurri passati, ed era una sonata che profumava di lacrime dolcissime.
Poco prima che la vita se ne andasse, lui fece uscire tutti dalla stanza perché voleva parlare con lei. E una volta che furono soli non disse le solite cose che si dicono quando si muore, e nemmeno lei veramente se le aspettava, ma le fece cenno di aprire il comodino. C’era un biglietto da visita, lei lesse l’indirizzo di un’impresa di pompe funebri. Si trattava di una ditta americana specializzata in cremazioni, e se lui voleva così, certo lei non aveva niente da obbiettare. Soltanto non capiva quel fare di lui ammiccante, che se solo il dolore l’avesse consentito, si sarebbe potuto dire sorridente.
Quando Giacomo morì, o meglio ingannò i dottori, lei non ci fece nemmeno caso, prese il biglietto e se ne andò come per fare una commissione, ubbidiente al suo amore. Lungo la strada pianse, un po’ perché vedeva quelle nuvole nere e gonfie che si avvicinavano sopra i palazzi, e un po’ pensando che tutto era finito, ma lo fece senza dispiacere, e se non fosse stato per le vetrine e i passanti che si inumidivano e scoloravano delicatamente non se ne sarebbe neppure accorta. Le ultime parole del suo amore le avevano detto di starsene calma e tranquilla, di non pensare a niente di brutto, e lei l’aveva sempre ascoltato il suo amore, come poteva non farlo adesso. Quando fu negli uffici dell’agenzia si strofinò gli occhi e si sistemò per il colloquio con quel signore molto gentile e professionale che l’aveva fatta accomodare sul divanetto per spiegarle quali fossero nel dettaglio le disposizioni che il suo amore aveva stabilito. Non fu molto sorpresa da ciò che apprese sarebbero dovute essere le procedure. Lui l’aveva abituata alle sorprese, e non l’aveva mai delusa, così dopo che le ebbero spiegato come le volontà del defunto si sarebbero esplicate, quando uscì dall’ufficio le sembrava di avere un sorriso che si allargava spudoratamente tra le rughe, che pure erano delicate, ma che non sarebbero mai più state guarite dalle carezze del sue amore.
La condussero fuori nel giardino, dove ritrovò gli amici che avevano accompagnato Giacomo per i saluti. Introdussero la bara nel villino dentro il quale l’avrebbero bruciata, ma lei preferì stare fuori a farsi consolare dalle foglie autunnali che animavano la cerimonia. Il suono del violoncello che veniva diffuso nel cortile non riuscì a strapparle nemmeno un singhiozzo, anzi lei si abbandonò alla grazia melodiosa del suo amore con l’incanto della prima volta. Poi all’improvviso un fumo grigio si alzò dal retro per perdersi nel cielo, e allora sì, due lacrime le piovvero sulle scarpe. Stette a guardare con la gola chiusa quella nuvola che era stata la sua vita, amandola e sorridendole poi nel suo dileguarsi, perché adesso le sembrava di capire quale fosse la vera dimensione di quel sentimento, e che il recipiente non poteva essere il suo corpo e nemmeno il mondo intero ma andava ben oltre il confine dell’universo. E quando il tetto smise di fumare se ne andò a casa quasi felice.
Il mattino dopo Nora si presentò come d’accordo per riportare a casa il suo amore, portando con sé la stessa trepidazione di quando l’aveva aspettato dopo il concerto, cinquant’anni fa. C’erano altre due donne nella sala d’attesa che avevano già fatto conoscenza, ma lei non volle interloquire. Una mia amica, dissero, si è fatta un giorno di cammino per disperdere suo marito in cima a una montagna. Oh sì, disse l’altra, c’è chi lo fa col mare, io me lo terrò sul letto, non voglio dormire da sola. Noi invece abbiamo un albero dove lui andava spesso per leggere, e lo seppellirò lì. E lei, cosa farà? chiesero improvvisamente a Nora. Lei fu colta di sorpresa, ma dopo una breve esitazione disse, in un disco, mescolerò le sue ceneri nel vinile e ne farò un disco. Noi americani siamo strani, anche se veramente è stata un’idea sua. Le donne non capirono se fosse irriverenza o follia, però dopo qualche minuto la videro uscire dall’ufficio con il suo bel disco in mano, commossa e raccolta nel suo turbamento.
Nora passò tutto il giorno a fare cose normali, fingendo di essere distratta e lasciando che il desiderio crescesse per conto suo, poi quando tutto il rumore della giornata si dissolse nella stanchezza della sera, prese il suo amore e lo mise sul giradischi. Si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. Non c’era più il violoncello, non più la burrasca dell’oceano. C’era il suono ruvido delle ossa e della carne, il crepitare del cuore e dei polmoni, lo stridio della pelle e il mormorio del sangue, e adesso anche lei poteva sentire quello che la sua verginità non era mai riuscita a sentire, cigolare la lingua, e le cartilagini e i capelli, sussurrare la milza fino all’orgasmo di ogni pensiero che riguardava il suo amore, che era lì e la stava baciando, le stava dicendo siete strani voi americani. Quel frusciare sublime di ciò che era la natura e la sostanza della sua passione era l’ultimo e definitivo concerto della loro storia. Quando il disco finì si addormentò pensando che avrebbe passato il resto dei suoi giorni a far finta di niente, solo aspettando la sera. Sapeva che avrebbe sempre potuto fare l’amore con lui, senza che dovesse esserci mai la parola fine.


settembre sexy. 4

Prenditi un bacio con la bocca sporca di nutella e taci, che adesso mi metto in affari mi compro un orso e rivendo la pelle, vedrai che fosforescente divento. Basta cercare cibo, mettici la carcassa del desiderio che ti resta, trafughiamo le scene dei film e le rifacciamo al contrario, finalmente depravati, un colore per volta. E ricorda, io se rubo lo faccio per la luna che risplende sulla refurtiva, non per te ma per il tuo spavento grande come la mia apertura alare.


settembre sexy. 3

Ho trovato una mano nella posta con un chiodo conficcato al posto dell’anello e starò a guardarla finché non mi piacerà. C’è mercato per i porno biscotti da rosicchiare sul tappeto, telefonami e sarai al centro del massacro, per te mancherò l’appuntamento col mio orsacchiotto. Le statistiche dicono che c’è un’altra mano da qualche parte, e la troverò, lo so, perché ogni mattina ho quel pensiero che sbatto a terra come una piovra che non vuol saperne di morire.


settembre sexy. 2

Il mio turno di guardia è finito e da domani se qualcuno mi spara io gli darò un pugno, e se non sento l’eco lo elimino dalle cianfrusaglie. Non mi piace viaggiare per cui portatemi le montagne, non sentirò la mancanza di chi ha investito il mio cane, anzi seminerò tachipirina sul paesaggio ostile e lo vedrò rifiorire di termometri succulenti un giorno. Dall’ombelico in giù sono immortale, ho un uragano in ripostiglio pronto per l’amore, chiamate un notaio, non bado a spese, io mi dichiaro marito e moglie.


movimenti ripidi degli occhi. 5

La donna si era svegliata quando ancora faceva buio, si era spogliata ed era andata a sparire da qualche parte nella casa. L’uomo, dopo che ebbe finito di sognare un treno che correva su un lago secco, si era sollevato dal letto di soprassalto e aveva attraversato le luci sottili della strada, aveva intravisto la donna dormire nella vasca da bagno, e si era seduto su quella sedia dove ogni mattina cercava di capire se essere felice oppure no. Pioveva. I passi della donna varcarono la penombra come fossero bagnati. Era nuda, ma quello era il suo vestito e la sua bugia, era come quando l’aveva trovata sopra uno scoglio e non sapeva come sfiorarle la schiuma che la ricopriva. Andò a sedersi sul tavolo e aprì le gambe in modo che l’uomo restasse in contemplazione davanti a quel suo panorama incolto mentre lei distrattamente guardava alla finestra i primi lontani chiarori dell’alba. Lui sentiva l’odore di caffè che avevano le sue gambe, e pensava che se solo avesse potuto distinguere la pioggia dai suoi occhi forse avrebbe potuto anche provare ad amarla.


movimenti ripidi degli occhi. 4

L’uomo si era fermato sul marciapiede e aveva cominciato a fissare una bambola nella vetrina, la fissava negli occhi per non vedere il riflesso delle macchine che correvano. Dall’altra parte della strada la donna guardava quel manichino che lui era diventato col tempo, e al suono di un violino che si arrampicava nel traffico, forse lo odiava, lo immaginava nudo, privo di voce e di pensieri come lui avrebbe voluto essere. Poi all’improvviso la donna crollò a terra, di schianto come una mucca al macello, intuendo la pistola negli occhi della bambola. Ma l’uomo la conosceva bene, era solo una delle sue stramberie, credersi morta, attraversò la strada e la raggiunse sedendosi accanto al suo corpo vuoto. Un piccione atterrò sulla schiena della donna e lei si scosse. Eccola lì, in attesa di tornare in vita come tutte le altre volte, tra poco si sarebbe seduta al suo fianco, gli avrebbe preso le mani per stringerle e morderle cercando un po’ di sangue. E il mendicante col violino sarebbe passato davanti alla vetrina, dove la bambola, trafitta dai fanali delle auto appena accesi, gli avrebbe bisbigliato un segreto.


movimenti ripidi degli occhi. 3

L’uomo la guardava dalla finestra del bar restare tenacemente aggrappata a quel prato sfatto che la faceva piccola come una parola sussurrata. Il vento appassionato frustava la donna e il suo cappotto grigio, ma c’era solo il rumore del biliardo, l’uomo appoggiava la fronte e poi aprendo la bocca appannava il vetro per farla svanire dal suo brutto sogno. Lei cominciò a camminare sulle ginocchia, raccoglieva dell’erba e la mangiava strappandola coi denti, questo le ricordava qualcosa, ed era una scena che aveva visto da una finestra o da un oblò, quando i desideri erano come quei buchi del biliardo dove sparivano le palle che si erano scontrate. L’uomo ripulì il vetro per guardarla ancora e forse per decidere di scappare via e rimpiangerla, e andarsi a cercare un po’ di nostalgia in un posto senza vento, e non gli faceva niente vedere la donna che ingurgitava altra erba in mezzo alle gambe, riempiendosi proprio là dove si sentiva incendiare dalla fame, solo pensava che il vento non stava facendo nessun rumore.


movimenti ripidi degli occhi. 2

La donna si era messa a contare le stelle e l’uomo urlava che non poteva più stare in quel posto, e correva tagliando in due il parcheggio vuoto, ed era come vedere una vita scagliarsi nel dimenticatoio, questo la donna l’aveva sempre saputo di lui ma non si era mai presa la briga di parlargli come si fa a una stella cadente. C’era odore di benzina nell’aria che faceva venire voglia di accendere un fiammifero, lei si sedette sulla sbarra che chiudeva la strada, lasciando che le ortiche le crescessero ovunque, con l’unico capriccio di pensare qualsiasi cosa la potesse rendere infelice. Finché l’uomo perdendosi tra le piante prese il cellulare e cominciò a parlare con qualcuno, la donna non sentiva le parole ma sapeva che non erano parole, perché il suo telefono non aveva suonato ed era l’unico che avrebbe potuto, perché non c’era nessuno che non fosse lei e dunque l’uomo non poteva che parlare da solo, lei lo sapeva, ma non sapeva se sorridere o continuare a contare le stelle sperando che lui le arrivasse alle spalle a un certo punto per baciarle un orecchio.